Predappio, al Teatro Comunale va in scena “Come back to the 5 and dime Jimmy Dean, Jimmy Dean”
Sabato 10 dicembre, alle 21.00, al Teatro Comunale di Predappio, la compagnia Teatro delle Forchette presenta “Come back to the 5 and dime Jimmy Dean, Jimmy Dean” di Ed Graczyk, regia di Antonio Sotgia.
Lo spettacolo
1955: terminate le riprese de “Il Gigante”, James Dean rimane ucciso con la sua Porsche Spyder, in un tremendo schianto sulle strade di Salinas. La sua scomparsa scatenò una sorta di isterismo collettivo. Un mito come pochi nel cinema. I giovani lo amavano e lo imitavano: un vero eroe da emulare. Dopo vent’anni, un gruppo di donne si rincontrano per celebrare il suo culto. Ma vivere nel passato può essere pericoloso: ognuna di loro ha permesso che l’inganno prendesse il controllo della sua vita, ognuna di loro è una rappresentazione struggente, dolorosa, commovente di innocenza persa. La piece teatrale di Ed Graczykc è tutta chiusa in un unico ambiente: un polveroso, angusto, modesto emporio in pieno deserto texano.
Ma in questo spazio così ristretto vi è tutto un mondo con le speranze deluse, con le frustrazioni, con le ipocrisie, con i tradimenti, con le generosità di ognuno di noi. E noi partecipiamo, coinvolti al massimo, a questo incontro che ben presto si rivela un gioco al massacro, un bilancio senza remore di sei vite che assolutamente non sentiamo estranee ma in cui tutti, più o meno, ci ritroviamo. Tante storie apparentemente diverse, ma senza intrecci secondari: le rivelazioni di ciascuna donna ha effetti, ripercussioni sulle altre. Analisi impietosa dell’artefatto “sogno americano”, il film mostra la vera faccia dell’America, fatta anche di solitudine, disperazione, violenza. Vent’anni dopo le donne troveranno inutile incontrarsi di nuovo: tutto è stato già detto. Le illusioni sono morte.
Il film
Il film girato da Altman nel 1982, tratto dalla omonima commedia di Ed Graczyk che Altman stesso aveva portato con scarsa fortuna a Broadway, prende infatti le mosse dalla gloriosa virtù di James Dean di requisire le fantasie delle sue ammiratrici, convinte di possederlo in esclusiva. Con conseguenze tuttavia controverse, giacché poteva accadere che idoleggiare James Dean più di ogni altra stella dello schermo aggravasse il distacco dal reale e nel contempo lo medicasse col dono dell’illusione.
Appunto per frugare nei meccanismi socio-psicologici messi in moto dal divismo, un’insidia perenne all’igiene mentale, e per confrontare l’esaltante universo prodotto dalla finzione del cinema con quello della meschina, asmatica realtà, nel film si contempla come nel 1975 a McCarthy, una cittadina del Texas prossima ai luoghi in cui fu girato “Il gigante”, per commemorare il ventennale della morte di Dean le amiche che fondarono un club a lui intitolato si ritrovino nel vecchio emporio dedicato al suo culto. Mona, la presidentessa del club, e Juanita, la padrona dell’emporio, accolgono le compagne con entusiasmo, e tutte si propongono di rafforzare l’amicizia venerando le reliquie del loro beniamino, ma l’arrivo inatteso di una sconosciuta rompe l’incantesimo e la gioia di rivedersi. Chi è mai questa bella Joanna vestita di bianco che, venuta chissà da dove, le schernisce e insulta, e scopre altarini con crudeli sorrisi? È Joe, che vent’anni fa, come sguattero dell’emporio, faceva parte del club, deriso e violentato dai maschi della città, e poi sottopostosi per cambiare sesso a un’operazione chirurgica.
Arroventata da Joanna (già si soffoca per il gran caldo), l’atmosfera si fa incandescente quando ai ricordi si mescolano le accuse e la finzione dell’armonia si spezza. Mona, che ha voluto dare ad intendere di avere avuto un figlio da James Dean (invece è stata soltanto una comparsa nel “Gìgante”; il figlio l’ha avuto da Joe), è sull’orlo della follia; la provocante Sissy è indotta a confessare di essere stata piantata dal marito dopo un intervento per un tumore alla mammella, e di avere ora il seno di gomma; la vedova Juanita ammette quanto aveva sempre negato: che il suo uomo era un ubriacone; Stella, moglie di un petroliere, si rivela una frustrata perché non può avere bambini, e Edna Louise si conferma la più mite e indifesa (è al settimo figlio). È, come si dice, un gioco al massacro, condotto da Joanna per rivalersi delle umiliazioni subite, ma favorito dal mascherarsi delle amiche, che per sentirsi protette hanno cercato sostegno fuori di sé, nella morale corrente o nella moda della spregiudicatezza. Fuggendo in quell’inganno della memoria, in quell’illusione di giovinezza, che tuttavia resta ancora per i falliti l’unica difesa contro i dispetti del destino.
Se vogliamo, poco di nuovo. Perché tanti scrittori hanno già raccontato le ossessioni e le miserie della provincia di un Impero che nelle fibre più profonde è malato d’infantilismo (certo, Tennessee Williams); perché Altman non fa che proseguire la sua analisi laica dell’anima americana, di cui pochissimi connazionali, condannati all’ottimismo, sanno essergli grati; e perché il genere psicodramma, a cui il film appartiene, con quel tanto di convenzionale che c’è nel far emergere lividi e cicatrici da concitati confronti, riserva ormai poche sorprese. Ma molto di bello, grazie all’intelligenza con cui è messa in scena l’isteria, alla compattezza e coerenza del racconto, alla superba qualità degli attori.
Uno dei nodi drammaturgici del film era nella rappresentazione del salto dal 1955 al 1975. Rifiutando la strada facile del flash-back, Altman l’ha sciolto con l’invenzione di uno specchio nel quale, quando occorre, aiutando il variare della luce, alle immagini di oggi subentrano i fantasmi di ieri. I personaggi nella maggior parte dei casi conservano gli stessi abiti e connotati, come dire che il mito ha bloccato il corso della storia in quella provincia riarsa e remota. Affidando a un transessuale il compito di squarciare un penoso tessuto di menzogne, sul finale reintroducendolo nel gioco, e attribuendo a Mona un figlio deficiente, Graczyk e Altman esprimono tuttavia con disperata ironia l’ambiguità del reale, la violenza dell’immaginazione e la forza della leggenda, che spinge sino alle soglie della mitomania le vedove di James Dean e arresta i processi dell’autocoscienza.
Serrato in un unico luogo chiuso, assediato dall’afa, il film riflette l’origine teatrale (è la strada che Altman ha continuato a percorrere meno felicemente col più recente “Streamers”), e pecca talvolta di verbosità, ma non parleremmo in questo caso di teatro filmato.
La macchina da presa s’insinua nelle pieghe dei caratteri con rara duttilità, suggerisce dense tensioni fra i valori psìcologici e ambientali, è essa stessa lo strumento simbolico di un’operazione demistificatrice che nel contempo compiange e deride la fragilità della natura umana, abbandonata da Dio e usurata dal Tempo (tutti motivi che arricchiscono il film di prospettive malinconiche in un quadro di struggente irrealtà). Fornito di una scenografia della quale partecipano tenerezza e sarcasmo, il dramma può far nascere il sospetto dell’alta accademia, ma è ingiusto derivarne che Altman non ha più niente da dire. Resta uno dei registi maggiori, e c’è da sperare che continui a fare film per se stesso anziché per il pubblico di Hollywood. Acquista quello sensibile alla poesia dell’insicurezza, agli spasimi della sofferenza repressa, alle frodi e ai conforti del cinema. E qui torna a laurearsi maestro grande di recitazione rendendo impeccabile il concerto espressionista fra attrici di rango: prime inter pares quella Sandy Dennis e quella Karen Black che vengono a collocare Mona e Joanna fra i memorabili personaggi femminili di cui ad Altman siamo debitori.
Cast: Mona – Benedetta Benedetti; Sissy – Jenny Bianchi; Joanna – Paola Fabbri; Juaita – Martina Strocchi; Joe – Mattia Geraci; Stella Mae – Jessica Ragazzini; Edna Louise – Biancaluce Derni. Audio e luci: Antonio Sotgia.
Biglietteria
Intero 15 euro, ridotto 10 euro (ragazzi under 25, over 75, universitari, residenti Comune di Predappio, Soci T.D.F, FoEmozioni, Cral Cna). Info e prenotazioni: 339.7097952, 347.9458012, 0543.1713530; info@teatrodelleforchette.it.