Andrea Monda (“L’Osservatore Romano”): comunicazione che ascolta con “l’orecchio del cuore”
Andrea Monda, direttore de “L’Osservatore Romano”, lei ha moderato a Villa Pallavicini “Credere nel tempo di oggi”, il penultimo incontro della rassegna “LIBeRI”, nella serata in cui hanno dialogato il card. Matteo Zuppi e il teologo Julian Carron.
Credo nella conversazione e nel dialogo, nel fatto che gli uomini non perdano il gusto di confrontarsi in maniera aperta, inclusiva e accogliente. Questo è il grado minimo dell’umanità da cui occorre ripartire e averlo fatto nel bellissimo contesto di Villa Pallavicini è una cosa che mi sembra promettente.
“L’Osservatore Romano” ha recentemente aperto la prima pagina con un titolo significativo: “Non possiamo ignorare il grido dei poveri”, facendo riferimento alle crisi in Libia, in Ucraina e nel mondo. Da dove nasce questa attenzione?
Questo appello nasce dalla vocazione che “L’Osservatore Romano” ha da sempre e che io ho soltanto ereditato. Ho cercato di amplificare, ovvero di avere uno sguardo ampio sul mondo. Il nostro giornale osserva da Roma, dalla culla del cattolicesimo. Tutto il mondo passa da qui e Roma ricambia con uno sguardo umano, misericordioso, che tende sempre più ad allargarsi senza escludere nessuno. Pensiamo, purtroppo, alle tante guerre dimenticate, che il Papa spesso ricorda. Noi assecondiamo la sua richiesta, quella di non fare inaridire il cuore. Si tratta di uno sguardo. Il cuore e lo sguardo stanno insieme e allora parlare di Yemen, di Siria o di Libia è come cercare di dire, soprattutto al cuore dell’Occidente, che fa benissimo a parlare della guerra in Ucraina che è nel cortile di casa nostra, ma senza per questo dimenticare il resto del mondo, il dramma di una “guerra mondiale a pezzi”, come ricorda sempre il Papa.
Gli anni della pandemia, le guerre, la crisi economica: come vede cambiare la Chiesa in questo mondo globalizzato?
La Chiesa cambia come l’umanità, travolta da fatti che non sempre avevamo considerato. Sono avvenimenti che sembrano giungere da un mondo antico: un’epidemia, una guerra sotto casa, e verso i quali ci siamo trovati impreparati, quasi analfabeti e balbettanti. La Chiesa è esperta di umanità, ha il deposito della fede, il grande tesoro del Vangelo: può dire e riesce a dire una parola sempre coniugata con l’azione. All’Osservatore non a caso abbiamo creato una rubrica che si chiama “Ospedale da campo”, altra immagine cara a Papa Francesco per descrivere la Chiesa, e raccoglie tante storie di una Chiesa che, nella sua azione quotidiana, cura le ferite di un’umanità dolente. L’umanità oggi ha mille ferite che non sono soltanto le malattie del fisico, ma vengono soprattutto dal disorientamento e dallo smarrimento, pensando anche a quelli degli anziani. La Chiesa vive nel tempo e nel mondo, vive i grandi capovolgimenti e stravolgimenti con radici solide e forti, che sono in cielo, e quindi ha la forza di dire la parola che l’uomo smarrito di oggi sta cercando.
Il ruolo della comunicazione è cresciuto in questo tempo di pandemia. Il Papa nel messaggio per la 56esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali chiede di ascoltare con “l’orecchio del cuore” in un cammino sinodale di ascolto di tutti. Qual è il ruolo della comunicazione oggi?
È fondamentale fare discernimento perché viviamo in un mondo in cui c’è tantissima comunicazione, ma proprio per questo si crea in qualche modo una sorta di cortocircuito in cui si perdono senso e priorità, e quindi si fa fatica a fare discernimento. È fondamentale, allora, che ci sia una comunicazione umana, cristiana. Quando il Papa dice di ascoltare con “l’orecchio del cuore”, ci sta dicendo una cosa che può sembrare paradossale, ovvero che la comunicazione si fa prima ascoltando, poi parlando. Ciò ci dovrebbe indurre a cambiare il paradigma: siamo capaci di tacere mettendoci in ascolto degli altri? Se la risposta è positiva, allora inizia una vera comunicazione. La comunicazione non è solo informazione, ma è un processo che dovrebbe portare alla comunione.
Qual è il compito de “L’Osservatore Romano” oggi?
È il compito che ha sempre avuto fin dall’inizio, da 161 anni, cioè quello di diffondere la voce della Chiesa, del Papa e della Santa Sede in tutto il mondo. Offrire così lo sguardo che proviene da Roma, ed è uno sguardo benevolo, di chi porta con sé la promessa che sta dentro al Vangelo, quella di un Dio che si è fatto uomo perché ama il mondo e non perché lo condanna. Oggi il compito de “L’Osservatore” non dico che si fa più difficile ma deve essere al passo con i tempi che sono così pieni di comunicazioni, informazioni e immagini. Diventa quindi difficile far restare salda una comunicazione umana che dia spazio allo spirito. Questa è la grande sfida che stiamo provando a intraprendere e i risultati sono promettenti.
Lei anche per lavoro è a contatto con il Papa. Che cosa in questi anni l’ha colpita di più del pontificato e dei messaggi di papa Francesco?
Mi ha colpito molto l’identificazione tra il messaggio e il messaggero, cioè la capacità che il Papa ha di azzerare le distanze e far passare tutta la carica umana di un uomo spirituale che prega sempre, senza separazione tra l’essere e l’apparire, il dire, il fare, l’agire. Questo è un aspetto che le persone percepiscono, siano esse colte o semplici, cattoliche o non, moderatamente cattoliche, distanti o lontane dalla Chiesa. Abbiamo un uomo vero che si mette in gioco e questa sua capacità di rischiare è forse l’aspetto che mi commuove e tocca di più.
Il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, da poco tempo è anche presidente della Cei. Che notizia è stata per “L’Osservatore Romano”?
Una buona notizia! Con il card. Zuppi da tanti anni c’è anche un legame di amicizia e conoscenza. Se la spinta di Papa Francesco vuole realizzare una Chiesa in uscita che non sta seduta sugli allori, ma va per le strade a cercare le pecore che sono smarrite, e lo fa sul serio, allora in questa cornice la scelta del card. Zuppi come presidente della Cei si colora di una bella promessa.
A cura di Alessandro Rondoni