Abusi sui minori, intervista a padre Federico Lombardi sul ruolo dei media cattolici
Il prossimo 31 marzo si terrà a Bologna un seminario sul tema “La deontologia nel rispetto della notizia e dei lettori: il caso pedofilia nella Chiesa”. Organizzato dall’Unione cattolica stampa italiana in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti Emilia Romagna come occasione formativa per i giornalisti, esso si rivolge in realtà anche a quanti nella Chiesa sono coinvolti negli organismi di protezione dei minori nelle diocesi. In vista del convegno, nel quale interverranno Michele Partipilo (Gazzetta del Mezzogiorno), Maria Elisabetta Gandolfi (Il Regno) e p. Federico Lombardi (Fondazione J. Ratzinger), abbiamo rivolto a quest’ultimo qualche domanda.
Lei è stato direttore della Sala stampa vaticana in una delle “emergenze” mediatiche che hanno colpito in pontificato di Benedetto XVI. Quali sono state le lezioni più importanti che ne ha tratto?
Innanzitutto ho compreso che si trattava del venire alla luce di un problema molto grande, che richiedeva un vero cambiamento nel modo d’affrontarlo, sia nella vita concreta della comunità ecclesiale, sia nel suo versante comunicativo. Non si trattava di un “caso” per quanto drammatico e doloroso, e neppure solo del problema della Chiesa in un paese (Canada, Irlanda, Stati Uniti…), come qualcuno si era illuso che fosse, ma di una situazione diffusa in tutto il mondo, sia nella Chiesa sia nella società. Non visto e non riconosciuto da molti, sottovalutato da altri, nascosto da altri ancora per una serie di motivi diversi ma concorrenti: occultare le proprie nefandezze, non turbare e non scandalizzare la gente, difendere l’onorabilità della propria famiglia o istituzione, proteggere i colpevoli per malintesa misericordia e solidarietà ecc. Si trattava quindi non solo d’affrontare un caso scandaloso ma circoscritto, ma di vivere un cambiamento “di cultura”. La lezione fondamentale è stata quindi quella d’“imparare a far luce per dissipare l’ombra”. Questo significava superare resistenze e atteggiamenti antichi e radicatissimi nella Chiesa. Una vera conversione che richiedeva tempi lunghi. Dal punto di vista comunicativo significava imparare come parlare con verità e obiettività dei problemi: anzitutto conoscerli e poi sapersi assumerne le responsabilità; aiutare l’intera comunità sociale ed ecclesiale a prenderne coscienza e a reagire. Si trattava di un cambiamento di “cultura”, per questo la comunicazione era una dimensione fondamentale.
Sono emersi scandali in tutto il mondo. Recentemente si è parlato del lavoro d’indagine delle “commissioni”: ritiene che questa sia una priorità anche per l’Italia?
Da quando si è iniziato a parlare del problema si sono comprese molte cose. Diversi episcopati si sono mossi con decisione e saggezza, hanno formulato delle “linee guida” ben articolate e le hanno aggiornate in base all’esperienza. Tuttavia, nonostante il problema sia comune (infatti giustamente papa Francesco ha convocato un summit di tutti i presidenti delle Conferenze episcopali nel 2019), le situazioni culturali e i modi concreti e la prontezza nel rispondervi sono molto diversi nei diversi paesi. C’è chi è avanti e chi è ancora molto indietro, e talvolta s’illude ancora di poter evitare d’affrontare un problema doloroso e difficile, o continua a sottovalutarlo. Questo però è una mancanza di lungimiranza. In questo mondo il problema emergerà prima o dopo, e i ritardi si pagheranno cari. Gli scandali hanno già ferito la credibilità della Chiesa nell’insieme e delle sue autorità in particolare, considerate manchevoli per aver in passato sottovalutato od occultato il problema o averlo gestito in modo sbagliato. Per quanto riguarda la Chiesa in Italia penso che il contributo di una “commissione indipendente” possa essere utile. Ma bisogna che la Conferenza episcopale sia unita e decisa nel prendere l’iniziativa e che se ne specifichino bene i compiti e si curi la sua autorevolezza, affinché i risultati, per quanto sempre dolorosi, siano assunti come contributo o riferimento per un impegno comune forte ed efficace e non diventino occasione di confusione e di scoraggiamento. Tuttavia le commissioni non si possono sostituire alla responsabilità della Chiesa. Deve essere chiaro che danno un contributo, ma la soluzione – che comporta una conversione – la può trovare solo la comunità della Chiesa stessa: non solo i pastori, ma tutta la comunità ne deve essere coinvolta.
Che ruolo possono avere a suo avviso i media cattolici?
Penso che i media cattolici dovrebbero essere attenti soprattutto a tre cose:
– Essere decisi nel promuovere la verità, per conoscere profondamente, denunciare e combattere il male, senza paura e mezzi termini.
– Farlo con obiettività, facendo comprendere che si tratta di un male che va combattuto con forza in tutta la società, per il bene di tutti, e che la Chiesa deve combatterlo in sé per la sua responsabilità e la sua missione, per essere capace e degna di combatterlo dappertutto. E in questo deve avere coscienza comunitaria di conversione, responsabilità, solidarietà, senza pensare che l’impegno possa essere solo delle autorità ecclesiali.
– Farlo con fiducia e senza scoraggiarsi: la lotta è lunga e su questa terra non sarà mai vinta del tutto e definitivamente, ma va combattuta con decisione in spirito cristiano. E per questo i media cattolici, guardando avanti, devono anche svolgere un impegnativo servizio d’incoraggiamento alla prevenzione e alla prevenzione, che deve coinvolgere tutta la comunità cristiana e sociale.
Maria Elisabetta Gandolfi