L’associazione Dino Amadori incontra il dottor Pier Lorenzo Costa nel sengno della vicinanza al paziente
L’associazione Dino Amadori ha incontrato il dott. Pier Lorenzo Costa, nel segno della vicinanza al paziente, visto come persona nella sua interezza, così come praticava il prof. Dino Amadori. L’intervista è stata curata da Giovanni Amadori, presidente dell’associazione Dino Amadori, assieme al giornalista Vincenzo Bongiorno.
Il dottor Pier Lorenzo Costa è nato a Lugo (RA) il 10 agosto 1947. Dopo la laurea, ha frequentato l’Istituto di Patologia Medica, Policlinico S. Orsola (prof. Giuseppe Labò) come ricercatore con particolare interesse per le malattie epatiche, pancreatiche e intestinali. È specialista in Medicina Interna e Malattie dell’aparato digerente. Si è sempre interessato di Patologia pancreatica ed è un pioniere dell’ecografia addominale, disciplina che pratica da 50 anni. E’ un grande studioso della patologia pancreatica sia infiammatoria sia tumorale. Ha ricoperto importanti incarichi fra i quali: gastroenterologo presso l’Ospedale di Forlì, diretto dal Prof. Giovanni Fontana; primario di Medicina Interna Ospedale Santa Sofia e di Forlimpopoli (FC); direttore del Dipartimento Medicina Interna Ausl di Forlì; primario di Medicina Interna presso la Casa di Cura Privata Polispecialistica Dott. Pederzoli. È autore di oltre 180 pubblicazioni su riviste italiane e straniere.
Dott. Costa, lei conosceva bene il prof. Dino Amadori, che ricordo ne conserva?
Lo conoscevo molto bene, seppure lo abbia conosciuto meglio un po’ tardi. Arrivai a Forlì nel marzo 1978 e Dino era già diventato primario di Oncologia. Lo conobbi subito in ambito ospedaliero in quanto, pur essendo giovanissimo, era già un noto medico e ricercatore. Ma il primissimo incontro con lui risale al 1970 quando, ancora studente, iniziai a venire a Forlì per svolgere attività di ricerca e lavoro di laboratorio, su pazienti che trattava un grande chirurgo di Forlì, il prof. Galeazzo Mattioli, con tecniche già all’avanguardia.
Dino ho poi avuto modo di conoscerlo molto bene nel corso della nostra attività professionale. Lo ricordo come uomo e grande scienziato, davvero molto capace. Umanamente in grado di attrarre a sé qualsiasi persona e personalità con cui interloquisse o si confrontasse. Un grande anche per il tratto di grande empatia e umanità che aveva con i suoi pazienti, qualcosa di esemplare.
Qualche aneddoto del suo rapporto con Dino?
Vi sono state circostanze nella vita di entrambi che ci hanno avvicinato, ci hanno unito fino ad arrivare ad un rapporto di vera amicizia. Su Dino, ricordo poi l’enorme stima che aveva di lui, tra gli altri, anche mons. Livio Lombardi, che era stato il suo insegnante di Religione al Liceo Classico. Da mons. Lombardi sentivo sempre cose mirabili sul giovane Dino, questo ragazzo liceale che veniva da Corniolo.
Cosa vi è ancora di attuale nella testimonianza professionale ed umana del prof. Dino Amadori?
Personaggi come Dino Amadori, ahimè, non nascono tutti i giorni. Ne nasce uno ogni tanto… Uno di quei personaggi che hanno idee che poi anche gli altri percorrono per il miglioramento della società. Ha avuto l’idea di realizzare qui in Romagna un’istituzione all’avanguardia per le cure oncologiche. Un’istituzione nata dopo che a metà degli anni ’70 il prof. Martuzzi aveva fondato l’Oncologia a Forlì.
Ci racconti qualcosa di lei, dott. Costa. Come è stato il suo approccio con la medicina?
Io ho fatto il Liceo Classico a Ravenna e fu più o meno un caso, in quanto dopo la maturità ero con il mio amico Giovanni Pollini, diventato poi un celebrato ingegnere nucleare, che mi disse: “Io vado al Politecnico di Torino a fare Ingegneria Nucleare”. Io avrei voluto fare filosofia, ma ero sicuro che con filosofia non avrei mangiato e mi piaceva ingegneria, mi piaceva fisica mi piaceva tutto ma io gli dissi che, tutto sommato, la medicina avrebbe fatto per me. Ricordo che era il 19 agosto 1966 quando decisi a Ravenna.
Poi questa sua decisione per Medicina che sviluppo ha avuto?
Io ho avuto sempre la mania di lavorare e studiare. Sono una persona a cui piace tantissimo studiare, ma non mi è mai piaciuto solo studiare e ho sempre sentito il bisogno anche della componente pratica, da affiancare a quella teorica. Il primo giorno di Università nella Facoltà di Medicina, andai a bussare alla porta dell’Istituto di Istologia che era il primo esame che dovevo dare. Mi aprì la porta una segretaria, a cui chiesi di essere preso lì in prova, disponibile a fare ciò di cui vi era bisogno.
È poi arrivato l’interesse per psicologia…
Sì, vi è stato un momento in cui avevo maturato la volontà di fare lo psicologo e psicanalista. Lo dissi al Prof. Rizzoli, che era il direttore dell’Istologia, dopo due anni che avevo passato lì. Lui mi incoraggiò ad andare e finito il corso semestrale con l’amico prof. Trombini, docente nel 1968 alla Facoltà di Psicologia di Bologna, capii che la Psicologia non era fatta per me. E dunque tornai con la coda tra le gambe dal Prof. Rizzoli, che divenne anche preside di facoltà e Rettore dell’Università di Bologna, che mi accolse a braccia aperte e mi disse: “Lo sapevo che tu lì non saresti andato bene. Te lo dico io dove devi andare…”, e scrisse una bellissima lettera che ancora conservo dove scriveva mirabilia su di me, indirizzata al prof. Labò, allora direttore della Patologia medica. Andai così a lavorare con Labò. Lì conobbi il prof. Giovanni Fontana, medico di altissima levatura culturale e scientifica, e per seguirlo, abbondonai il mio posto di ricercatore universitario e venni all’Ospedale di Forlì nel 1978.
Lei dott. Costa ha lavorato anche all’estero. Abbiamo qualcosa da imparare come Italia guardando ad altri Paesi?
Non saprei se abbiamo qualcosa da imparare da altri Paesi. In Italia mi sento di dire che dovremmo imparare a valorizzare maggiormente il merito, che dovrebbe essere l’unico criterio con il quale fare carriera. Occorre far andare avanti le persone che meritano.
All’estero invece hanno qualcosa da imparare dall’Italia?
Posso raccontare quella che è stata la mia esperienza. All’estero si meravigliavano – negli Stati Uniti ad esempio – di quanta teoria io sapessi rispetto a loro. Ma non è detto che ciò sia un vantaggio. Loro mettono il giovane medico immediatamente sul malato e gli fanno fare, per esempio, pratiche di urgenza, di rianimazione. Cose che noi non facevamo e credo che neppure adesso i giovani medici facciano. Di sicuro da noi italiani hanno da imparare la capacità di rapportarci con gli altri, l’empatia che anche in Medicina tendiamo a portare con i pazienti, elemento che ritengo fondamentale, anche se non tutti sono d’accordo. Mi piace ricordare ancora una volta che in questo, nell’attenzione e vicinanza ai suoi pazienti, Dino Amadori era un grandissimo.
Tra i tanti riconoscimenti alla sua carriera, due anni fa vi fu quello importante dell’Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas.
Fu una bella sorpresa. Non me lo aspettavo perché un riconoscimento così veniva conferito per la prima volta. Hanno inaugurato con la mia premiazione. L’ho saputo con poco anticipo. E, dunque, ho dovuto preparare una specie di lectio magistralis nella quale non ho parlato quasi per nulla di pancreas ma ho piuttosto ricostruito la mia vita, da ricercatore in biochimica del pancreas poi di clinica ed ho raccontato della mia vita non solo professionale ma di collezionista d’arte, tra pittura e scultura.
In tale occasione ha ricevuto anche i complimenti del sindaco di Forlì, Gian Luca Zattini.
Mi ha fatto molto piacere ricevere i compimenti del Sindaco a nome di tutta la città. Lo ringrazio. Dedico il riconoscimento che ho ricevuto a tutti i malati di pancreas che nella mia vita ho visitato e ho tentato di curare al meglio, con un pensiero particolare per un gruppo di loro, per il quale non vi era più la possibilità di fare nulla sul piano delle cure mediche. Ma comunque si sta vicini al paziente fino all’ultimo.
Se le chiedessi di descrivere il suo rapporto con i pazienti?
A mio modo di vedere è straordinario. Di me dicono che sarei l’unico medico rimasto in Italia che sta un’ora o di più con ogni paziente… Non saprei, ma di sicuro non prendo mai un appuntamento ad intervallo inferiore ad un’ora l’uno dall’altro. E con i miei pazienti parliamo poi un po’ di tutto. Io vedo persone non solo malate di pancreas, ma anche con malattie gastrointestinali, colon irritabile e reflusso gastro esofageo. Ho anche molti pazienti che vengono per farsi fare un controllo da un esperto. Spesso sono persone che non hanno fortunatamente patologie organiche e croniche.
Uno stile da grande medico, dotato di grande umanità.
Così come faceva Dino, il rapporto con i pazienti io lo vivo così. Io passo gran parte delle serate, e spesso anche parti della notte al telefono con i miei pazienti. Quando mi chiamano io rispondo e mi confronto. Quando non mi chiamano, li chiamo io e dico loro: “Come vanno le cose? Non mi ha fatto più sapere niente, com’è andato quell’esame che le ho prescritto?”. Per me il tentativo è quello di considerare sempre il malato come essere umano nella sua interezza.
E vi è poi l’elemento della curiosità. Come amava ricordare il prof. Dino Amadori, la curiosità contraddistingue il bravo ricercatore: per progredire, per scoprire, per crescere anche professionalmente, si deve essere curiosi.
Confermo, condivido in pieno.
Dottore è più quello che la professione medica le ha dato o quello che lei ha dato alla professione medica?
Questa è una domanda difficile. Io spero di aver dato qualcosa ai malati ma sicuramente loro hanno dato tantissimo a me. Ho imparato tantissimo dai malati e, più erano di estrazione modesta, più imparavo. Perché sono persone meno filtrate, più genuine, portatori spesso di quotidiana saggezza.
Lei è anche un grande esperto ed appassionato d’arte. Come ha cominciato?
Di solito con i pazienti dico che sono più bravo come storico dell’arte che come medico. Qualcuno rimane sbalordito, perché poi gli parlo del mio amico Vittorio Sgarbi e di altri. Ho o avuto la fortuna di conoscere i più grandi critici dell’arte, Federico Zeri mi ha aiutato tanto. Ho cominciato a 15-16 anni ad appassionarmi.
Vi è qualche artista che la intriga particolarmente?
Sono tanti. Ricordo con piacere, in particolare, che nel 2014 ho curato una mostra al piano terra della Fondazione della Cassa dei risparmi di Forlì relativa a Licinio Barzanti, un pittore che nasce nella nostra città, muore a Como ed è sepolto in un Comune di quella provincia, a Menaggio.
Vi è poi la sua passione per la medaglistica.
Sì, ho iniziato ad occuparmi di medaglistica per caso, a seguito di un omaggio da parte dell’amico Marchese Albicini che mi regalò una medaglia papale molto rara. Io non avevo alcuna medaglia, se non quelle di famiglia di mio zio e mio padre. Ho cominciato da allora ad acquistare medaglie, sino ad averne oggi più di 32 mila. È la collezione di medaglistica “medica” (la cosiddetta “medicina in nummis”) più importante al mondo.
Tra le opere che lei conserva, sappiamo che ce n’è una di particolare interesse a cui è molto legato.
L’opera è il bozzetto della statua di Giovan Battista Morgagni, considerato il fondatore dell’anatomia patologica nella sua forma moderna. È un gesso patinato firmato e datato da Salvino Salvini. Ricordo, quando lavoravo all’estero e parlavo di Morgagni, i colleghi accennavano ad un inchino. Morgagni è stato un gigante della Medicina, stimatissimo in tutto il mondo.
Può esserci una correlazione tra arte e scienza?
È un tema antico e complicato, difficilmente esauribile in poco tempo. Certamente vi è una curiosità: molti scienziati e molti medici sono stati grandi appassionati e cultori d’arte.
Anche nella scienza può esserci la ricerca del bello?
Con i parametri della scienza, sicuramente sì. Ma sempre rispettando il fatto che la scienza risponde a delle leggi matematiche, alle quali ovviamente l’arte, invece, non deve sottostare.