Gli 80 anni di Pierantonio Zavatti

Amo la mia famiglia e la Romagna, sentendomi fin dal liceo cittadino del mondo.

Sono nato l’11 maggio 1943 nel quartiere di Ravaldino, cinque settimane dopo la nascita a poche centinaia di metri di distanza dall’abitazione della grande missionaria Annalena Tonelli (una vita dedicata agli ultimi), che avrebbe poi frequentato la stessa parrocchia. Ma la netta separazione fra maschi e femmine che prevaleva negli anni Cinquanta (e non solo nella nostra parrocchia) rendeva difficile i contatti diretti, soprattutto con una ragazza così schiva e “angelicata”. Ne ho poi seguito a distanza con profonda ammirazione l’impegno missionario, dedicandole alcuni articoli sulla stampa locale e pagine del mio libro “Partirbisogna” nel capitolo “Emigranti per amore”, dopo due bellissimi incontri con lei assieme a mia moglie Giovanna nel 2001, quando lei visitò il bazar della parrocchia di Ravaldino (egregiamente condotto da Anna De Lorenzi e da altre donne). Un bazar fortemente impegnato nell’azione di solidarietà alla sua opera missionaria in Somalia, dove la “nostra Madre Teresa” fu uccisa nel 2005 da un fanatico islamista.

 

1943-1944. I miei genitori hanno spesso ricordato che nell’ultimo anno di guerra, che tanto ha angosciato i nostri concittadini, l’ampia cantina (forse settecentesca ) della vecchia casa di famiglia era diventata rifugio di almeno una cinquantina di persone. In uno degli ultimi bombardamenti dei mesi che sconvolsero Forlì prima della liberazione dalle truppe tedesche è morta un’amica di mia madre chiamata Bruna, nome che è stato dato a mia sorella, nata nel febbraio 1945. Da varie generazioni nella mia famiglia si erano alternati per i primogeniti maschi i nomi Ercole e Antonio, ma la mia mamma ha convinto il babbo a darmi il nome di Pierantonio per sottrarmi al rischio di essere chiamato con il nomignolo di Tugnin.

La mia esistenza, in grande sintesi, è stata densa di forti affetti familiari, di vere amicizie (antiche ma anche fiorite negli ultimi quindici anni anche in Africa e in America Latina), di intensi impegni in ambito sociale, politico, istituzionale, culturale, associativo e pubblicistico. Prendendo in prestito il titolo di un romanzo di Pablo Neruda, potrei dire: “Confesso che ho vissuto”. Senza porre limiti alla Provvidenza, perché anche la tarda età può offrirci dei doni. E farci innamorare ulteriormente della vita. Ma senza mai dimenticare un proverbio polinesiano: c’è un tempo per essere piroga (sempre in movimento) e un tempo per essere albero (per fermarsi e riflettere). Fermarsi, o rallentare molto, costa un po’ per dover rinunciare a visite a figli, nipoti e anche amici geograficamente lontani, a marce della pace, a qualche incontro e convegno interessante o a manifestazioni per i diritti sociali e per i diritti civili degli immigrati. Ma un po’ di partecipazione si può esprimere in vari modi, curando l’informazione e anche con qualche intervento o lettera sulla stampa locale o nazionale, soprattutto quando fin da giovani si rifiuta l’indifferenza e si ritiene, con Antonio Gramsci, che per vivere veramente non si può “essere estranei alla città”.

 

Di famiglia di tradizione mazziniana e di modeste ma non disagiate condizioni, devo molto nella formazione ai genitori Ercole e Norma, che con il loro esempio mi hanno testimoniato fin da piccolo il valore della famiglia, dell’impegno e del senso del dovere: l’etica della responsabilità. Per le loro situazioni familiari, pur essendo molto “in gamba”, avevano potuto studiare solo fino alla terza elementare, ma hanno investito quello che potevano nella mia formazione e in quella di mia sorella Brunetta, che vive a Ravenna ed è stata una brava mosaicista. Il mosaico è rimasto nella vita familiare grazie alla figlia Adele e a mia moglie Giovanna, che ha anche un buon talento naturale nel dipingere.

Inoltre, in particolare, mi ha dato e mi dà tanto, da quasi sessant’anni, l’amore di Giovanna, sposata nel 1963, a vent’anni, a Forlì, nella chiesa di San Francesco, e da cui ho avuto la gioia di cinque figli speciali: Davide, Lia, Ercole, Adele e Antonio. Stessa educazione, ma doni anche diversi. E, tramite i figli, il dono di sette nipoti (la lingua italiana, pur bellissima, manca incredibilmente di una parola specifica per indicare i figli di figli). In ordine di nascita i “nipoti” sono Federico, Emanuele, Sara, Lorenzo, Alessia, Luca e Marco Andrea. Anche loro amati e ricchi di doni nella loro naturale diversità.

 

Sono particolarmente orgoglioso di mio padre, lavoratore infaticabile in un lavoro durissimo come quello di scuoiatore in un macello pubblico e uomo di cuore particolarmente generoso, che purtroppo è morto quasi mezzo secolo fa, nella pienezza dei miei impegni e lasciandomi il rimpianto di non avergli fatto più domande, mentre mia madre è morta cinque anni fa, all’età di 96 anni. Il babbo non ha mai avuto la tessera del Partito Nazionale Fascista, ma -dopo la guerra- la tessera del partito repubblicano, pur senza essere mai stato un attivista. Fra i familiari ricordo Dante, suo fratello, reduce dalla “campagna di Russia”, di cui mi ha raccontato il dramma. Sono inoltre fiero, per il suo valore umano, civile, scientifico e letterario di Silvio Zavatti, un secondo cugino di mio padre, che dopo essere stato per un breve periodo subito dopo la fine della guerra vice-sindaco repubblicano di Forlì, ha scoperto che la politica non era la sua missione, e si è dedicato all’insegnamento nelle Marche e poi all’esplorazione delle regioni polari, divenendo un profondo studioso degli eschimesi, “il misterioso popolo dei ghiacci”, “gli Inuit” e della loro identità culturale. Suo è anche il merito del Museo Polare Artico di Civitanova Marche, l’unico in Italia.

 

Dopo gli anni vissuti nell’oratorio della parrocchia di Ravaldino, con il divertimento del gioco e della socialità, ma sconcertato per alcuni tratti dell’educazione religiosa pre-conciliare (in particolare l’ossessione del peccato sessuale e gli eccessi di ritualismo), l’adolescenza è stata resa molto gioiosa a tredici anni da un lungo soggiorno in Francia, presso la famiglia di uno zio materno, Ester -perché nato in Germania dove i genitori si erano recati per motivi di lavoro- e dopo il ritorno a Meldola emigrato in Bretagna fra le due guerre e poi partigiano affascinato da De Gaulle. Il 1956 è stato l’anno di grandi rivolgimenti in Europa e nel mondo, ma io l’ho vissuto soprattutto con un cugino che aveva cinque anni più di me e la sua “bande”, una comitiva di oltre una ventina di suoi coetanei, respirando l’aria molto frizzante dell’Oceano e giungendo a pensare in francese nell’arco di un’estate. Al ritorno, fra l’ultima settimana di ottobre e la prima decade di novembre, ho seguito alla radio il dramma dell’insurrezione ungherese repressa in modo sanguinoso dalla truppe dell’Armata Rossa. Ma nell’adolescenza ho vissuto un’altra indimenticabile esperienza nella squadra di calcio dell’Edelweiss, con un allenatore, Ninetto Calderoni, vero educatore ai valori dello sport, che ci chiedeva solo impegno, lealtà e di vincere la coppa disciplina. In una squadra molto unita, da mancino innamorato del dribbling e aspirante regista ero fieramente titolare della maglia n. 10 accanto a un compagno di maggior talento come il compianto Vittorio Zanetti (n.8), tanto semplice e modesto quanto bravo. Dal 1958 al 1960 abbiamo vinto quasi tutti i titoli giovanili. Poi, a 18 anni (lei aveva venti mesi in meno) mi sono innamorato di Giovanna, divenuta la donna della mia vita, un grande dono del cielo. Il calcio non ha perso nulla, io ho guadagnato tanto.

 

La vocazione all’impegno civile è maturata durante gli ultimi anni del liceo classico Morgagni, nei primi anni Sessanta. Fra i professori ricordo soprattutto Luisa Coen (storia e filosofia), Anna Lucia Rossi (italiano) e don Livio Lombardi, sempre aperto al dialogo soprattutto con noi un po’ contestatori, ma rigorosamente non violenti. Un effetto trainante ebbe per un gruppo di noi un concetto espresso con chiarezza in una Lettera agli amici da Giacomo Ulivi, studente di legge e partigiano ucciso dai fascisti il 10 novembre 1944: “La cosa pubblica è noi stessi, e quindi dobbiamo partecipare direttamente ai casi nostri”. Oggi viviamo in un periodo di crescente individualismo, in cui per favorire un senso di appartenenza comunitaria, potrebbe essere molto utile, a mio avviso, creare un servizio civile obbligatorio di almeno sei mesi per maggiorenni (maschi e femmine), un servizio da prestare in uno dei settori in cui l’inclinazione del/della giovane può incontrarsi con un fabbisogno sociale. L’alternativa al servizio militare non deve essere il nulla. Individualismo e indifferenza alla vita della propria comunità sono una miscela negativa per la formazione di un giovane.

I giovani di oggi sono per certi aspetti meno fortunati di noi, perché –come ha scritto in modo ruvido ma non privo di elementi di verità Umberto Galimberti – “solo il mercato si occupa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma è la loro stessa vita”. Ci sono elementi di riflessione, anche quando afferma che fra i giovani “si aggira un ospite inquietante, il nichilismo, che penetra nei sentimenti, confonde i pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui”. Non mi sembra questa la condizione della maggioranza della gioventù, ma il fenomeno e il rischio esistono, e dovremmo cercare di capire come mai “l’ospite inquietante” abbia oggi uno spazio di notevole rilievo. Noi adulti, anziani e anche vecchi non possiamo sfuggire a questi interrogativi, alle nostre responsabilità.

 

A 18 anni sentivamo come “casi nostri” anche alcune delle vicende più drammatiche del mondo. In un tema espressi il mio amore per l’Europa, che avrebbe dovuto però emendare i suoi peccati dell’ultimo secolo. Nei primi anni Sessanta abbiamo animato una piccola e pacifica manifestazione per l’indipendenza dell’Algeria dal colonialismo francese: il Preside ci rispose con la chiusura dei cancelli al nostro ritorno alle 10,30, perché non volevamo lo sciopero vacanza, e la “serrata” ci costò nel trimestre un sette in condotta. Un impegno in cui coinvolgemmo molti studenti forlivesi fu la creazione -assieme ad altri compagni della mia stessa classe di liceo- di un movimento cittadino per la nascita di consigli di istituto e per una gestione democratica della scuola con adeguata rappresentanza degli studenti e rinnovamento dei contenuti culturali di alcune discipline. Affidammo le nostre idee a un giornalino “L’invito”, che qualche volta rileggo, e a un’assemblea cittadina molto partecipata. Senza risultati concreti nell’immediato, ma abbiamo preceduto di una decina di anni i decreti delegati relativi alla scuola. Qualcosa di positivo, ma ben inferiore alle aspettative che ci animavano.

 

Con il circolo forlivese di cultura abbiamo promosso, fra l’altro, recital di lettere della Resistenza italiana (nella saletta della Provincia in Via Giuseppe Miller), lo studio di diversi articoli dell’appassionante dibattito all’Assemblea Costituente, letture di Antonio Gramsci e incontri su “Vita di Galileo” di Brecht, su Sartre, Camus e altri scrittori, oltre all’organizzazione di cineforum e doposcuola in alcune Case del popolo (soprattutto a San Martino in Strada). Eravamo indipendenti di sinistra, l’unico iscritto al PCI era Antonio La Forgia, un caro amico di grande levatura intellettuale, che ci ha lasciato quasi un anno fa in modo assai doloroso. Nella sua vita ha preferito la politica a tempo pieno rispetto alla carriera universitaria che l’aspettava nel campo della fisica. Ha comunque avuto incarichi politici e istituzionali di grande rilievo. Negli ultimi anni sono morti altri cari amici, Gabrio Furani, Alberto Conti, don Tedaldo Naldi, Giancarlo Cerini, ma l’elenco potrebbe continuare. E il 3 maggio ha lasciato la sua esistenza terrena una carissima amica, Miriam Ridolfi, forlivese che subito dopo la laurea si è trasferita a Bologna, dove è stata anche assessore comunale nella giunta Zangheri quando fu compiuta alla stazione la strage di ispirazione gelliana e fascista del 2 agosto 1980. Coordinatrice dei soccorsi alle vittime, è sempre stata molto vicina ai familiari, contribuendo alla creazione della loro associazione. Per venti anni preside innovativa del liceo Righi, ha sviluppato fino a un mese fa le sue amate attività educative. E sapeva anche scrivere racconti brevi, ma molto eloquenti.

 

A metà degli anni Sessanta ho attivamente partecipato assieme a Otello Gavelli, Sauro Sedioli, Roberto Ragazzini, Domenico Fiorentini e anche (per un certo periodo) al dottor Dino Amadori, al Comitato Italia–Vietnam di Ravaldino contro la “sporca guerra” voluta dagli USA. Sporca come quella del 2003 all’Irak, e come quella attuale della Russia all’Ucraina. Per citarne solo alcune. Del resto, di guerre pulite non ne conosco.

 

In prossimità della laurea in filosofia, conseguita a Firenze per il fascino di vari docenti di quella università (Garin, Cantimori, Sestan, Binni e altri), data la diffusa carenza di laureati ho avuto l’opportunità – mancandomi solo tre esami alla laurea – di insegnare come supplente annuale materie letterarie nelle scuole medie a Verghereto e a San Piero in Bagno, vivendo dal 1966 al 1969 in quella realtà con la mia famiglia, perché il preside imponeva l’obbligo della residenza, non volendo l’insegnante “che fa lezione e scappa”. Aria buona, acqua pura, ragazzi/e che amavano la scuola. Errori ortografici, ma non pochi si esprimevano in modo creativo e per me stimolante. Animai un’esperienza molto coinvolgente dal punto di vista didattico nella prima media, in cui si studia la storia antica: oltre tre mesi dedicati dal consiglio di classe su mio impulso alla costruzione con gli allievi di un plastico in compensato (50 cm per 80) della casa pompeiana dei Vettii. La casa come il luogo più appropriato per comprendere stile di vita, mentalità, relazioni familiari e rapporti con la schiavitù. Il plastico si è conservato bene, e si trova in una posizione (sopra una libreria) in cui posso vederlo tutti i giorni. E’ stata un’idea nata nello spirito della riforma della scuola media voluta dal monocolore Fanfani (1960-62), a mio avviso il governo più riformista della storia repubblicana, e non solo per la riforma della media, in cui il sacrificio del latino avrebbe dovuto essere compensato da un asse storico-scientifico-tecnologico. Purtroppo nel corso degli anni non è stato così. E mi pare che sia diventata debole l’identità della scuola media.

 

L’esperienza di vita e di lavoro nell’Alto Savio mi ha permesso di conoscere molte decine di giovani operai ed operaie, le loro istanze e i problemi delle fabbriche locali, oltre a quelli della montagna appenninica. E ho potuto incontrare i volti, i sentimenti e le esperienze del mondo dell’emigrazione italiana, che allora era massiccia in Svizzera e in Germania. L’interesse per le migrazioni mi ha poi accompagnato per tutta la vita. Nel 1968 in una classe di San Piero (la terza B), dieci allievi su venticinque erano figli di emigrati. Ne ho la conferma da un quaderno alunni che il preside ci chiedeva di tenere e aggiornare.

Negli ultimi trent’anni sono stato invitato varie volte nelle scuole medie, negli istituti medi superiori e in altri contesti per incontri sui temi dell’emigrazione italiana e dell’immigrazione straniera, in cui dovevo presentare qualche mio libro su questi temi (ne ho scritti sei, oltre a pubblicazioni più minute e ad alcune centinaia di articoli). Sono sempre stato colpito dal grande interesse degli allievi per tali argomenti, e queste esperienze hanno accresciuto il mio rammarico perché i libri scolastici (e in genere la scuola di ogni ordine e grado) hanno considerato marginale un aspetto essenziale della nostra storia nazionale, come della storia dell’umanità. Che è in notevole misura storia di migrazioni. Se non ci fosse stato questo vuoto culturale, la grande maggioranza del nostro popolo avrebbe accolto diversamente la novità storica del lontano che è diventato prossimo. E sul piano politico ci sarebbe meno spazio per chi lucra consensi e voti agitando paure di ogni genere contro l’immigrazione straniera, vincendo addirittura -grazie soprattutto a questo vessillo- le ultime elezioni che hanno portato al governo dell’on. Giorgia Meloni. Onestamente bisogna riconoscere che sarebbe stato necessario governare molto meglio il fenomeno migratorio fin dagli anni Ottanta anche da parte dei governi di centro-sinistra.

 

Nel 1968 fondai il sindacato scuola GGIL nel forlivese e ne fui il primo responsabile per alcuni anni. Il mio orientamento politico sempre più orientato a sinistra nasceva da ciò che Norberto Bobbio definisce “l’indignazione etica verso le ingiustizie e le disuguaglianze tanto sproporzionate quanto ingiustificate, tra ricchi e poveri, fra chi ha tanto potere e chi sta in basso nella scala sociale”. Nel 1968 chiesi a Giovanni Nuti, un amico muratore di Verghereto, la tessera del PCI perché, pur cogliendone i limiti, mi sembrava un partito più aperto di altri ai grandi temi della mondialità, ai bisogni delle classi disagiate e alle istanze di riforma degli studenti e del mondo del lavoro. Di lì a poco fui però molto amareggiato dalla semplice “riprovazione” (neanche condanna) da parte del PCI dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che pose fine al tentativo riformista della “primavera di Praga”, che avrebbe potuto dar luogo nel cuore dell’Europa alla sperimentazione inedita di un “socialismo dal volto umano”, democratico e pluralista. Nell’agosto del 1969, quando avevamo già quattro figli, espressi a Giovanna il desiderio – che lei comprese – di recarmi per qualche giorno a Praga con un pulmann dell’ARCI di Bologna assieme a Tonino Teverini (un compagno e amico di San Piero in Bagno). Andammo commossi nella piazza e sul luogo dove si era dato fuoco lo studente Jan Palach, in segno di protesta contro l’occupazione e per scuotere la coscienza del suo popolo. Com’è vera e poetica la canzone di Francesco Guccini dedicata alla primavera di Praga! Confidavo in un ripensamento del partito di Berlinguer, che non era un filosovietico, come non lo erano Ingrao e Occhetto, ma non ci fu. In ogni caso la voglia di contribuire a cambiare in meglio l’Italia era comunque tanta da prevalere a quel tempo su questo motivo di sofferto dissenso. Come scrisse una volta Luigi Pintor, non volevamo “morire democristiani”, ma ignoravamo che cosa sarebbe successo oggi, molti anni dopo. Per non pochi esponenti della DC avevo comunque rispetto e ammirazione. Soprattutto per un uomo di pace che voleva bene alla sua città e al mondo come La Pira, sindaco di Firenze che era stato deputato all’Assemblea Costituente, nella quale come Aldo Moro e vari altri democristiani aveva dato un contributo molto prezioso alla redazione della Costituzione repubblicana, una straordinaria sintesi delle culture democratiche dei partiti che avevano collaborato all’abbattimento del nazi-fascismo. Sul piano culturale è comunque forte –fin dai principi fondamentali – l’impronta del personalismo cristiano di Jacques Maritain. Di particolare interesse il confronto sul primo articolo della Costituzione: le sinistre avevano proposto “Repubblica fondata sui lavoratori”, i liberali preferivano un’altra formulazione meno classista, la DC propose l’espressione “fondata sul lavoro”, che fu poi approvata. E dimostra che la mediazione non è necessariamente qualcosa di negativo. Tutt’altro.

 

Nel settembre del 1969 ritornammo a Forlì, avendo avuto la cattedra a Santa Sofia, facilmente raggiungibile dalla città. L’esito elettorale del 1970 favorì la formazione di giunte di sinistra in quasi tutta la provincia. Eletto nel consiglio comunale di Forlì, mi fu chiesto da Giorgio Ceredi, segretario federale, quando avevo appena 27 anni, di assumere la responsabilità dell’importante commissione enti locali del partito, entrando in segreteria come funzionario a tempo pieno e lasciando la scuola. Lo ringraziai della fiducia, ma non ci pensai neanche un momento a dir di no: una vita da funzionario mi sembrava troppo limitativa dei miei interessi e della mia indipendenza di giudizio. Mi piaceva insegnare, dialogare con i ragazzi, vivere una cittadinanza attiva e solidale, ma con un buon grado di indipendenza. Accettai invece l’incarico di assessore a istruzione, cultura e formazione professionale nell’Amministrazione provinciale, che allora comprendeva anche Rimini ed era guidata da Silvano Galeotti, un presidente socialista aperto e pragmatico. Ero stato infatti presentato anche nella lista di partito del collegio di Bagno di Romagna. Il “servizio civile” di assessore in Provincia è stato ricco di opportunità di crescita politico-culturale, anche se non potevo godere dell’aspettativa a tempo pieno per mandato amministrativo, perché la Provincia -compresa Rimini- aveva meno di 600.000 abitanti. Dopo aver insegnato nella scuola media di Meldola, la mia sede successiva fu a Civitella di Romagna per quattro giorni la settimana, una bella esperienza anche questa, con un’umanità diversa da quella toscaneggiante di Verghereto e San Piero in Bagno, ma che comunque non avrei potuto conoscere insegnando nel “cittadone”. E con nuovi doni, fra cui l’incontro con una famiglia (i Bellini di Voltre) ) e con un sacerdote (don Aldo Budelacci), di cui sono tuttora amico. Nel pomeriggio accompagnavo quando potevo i miei figli al liceo musicale “Angelo Masini” per le lezioni di pianoforte (Lia), violino (Ercole e Antonio) e violoncello (Davide) in cui dimostravano molto talento. Lia aveva fin da ragazza anche il dono di saper scrivere con molta sensibilità e raffinatezza.

 

Fra gli impegni principali di assessore provinciale ricordo la promozione di ricerche per l’Università in Romagna e un dialogo costruttivo a questo fine con Davide Visani e la Provincia di Ravenna. Ma in quegli anni vissi altre esperienze importanti, come il lancio della proposta del biennio unitario alle superiori, il Festival del teatro in piazza di Sant’Arcangelo (che belle serate trascorse in quelle piazzette!), la promozione con ottimi collaboratori di ricerche sui beni culturali e gli insediamenti rurali nelle nostre vallate, sfociata in tre pubblicazioni che furono apprezzate da molti. Ricordo in proposito un convegno molto riuscito a Santa Sofia con l’architetto Marina Foschi, una donna di cultura molto raffinata.

In quegli anni fui spinto, dalla delega ricevuta e dalla crisi economica, a curare con molta attenzione la programmazione dei corsi di formazione professionale, in un contesto in cui non mancavano certamente enti di formazione piuttosto qualificati.

 

Nel 1975 fui rieletto con molti consensi (non solo di partito) nel Consiglio Comunale, perché un Comune con più di 100.000 abitanti consentiva l’esercizio di un mandato amministrativo a tempo pieno. Il sindaco Angelo Satanassi, dopo la precedente giunta che si era distinta soprattutto per la valorizzazione del ruolo dei comitati di quartiere e per le scuole dell’infanzia molto apprezzate anche da Gianni Rodari (grazie all’impegno particolare dell’assessore Maria Belli e del maestro Duilio Santarini), mi affidò le deleghe all’istruzione superiore e alla formazione professionale. Giorgio Zanniboni, allora segretario federale, mi aveva chiesto di accettare anche la delega al bilancio, perché pensava per me a più elevate responsabilità sul piano politico-amministrativo nel giro di qualche anno, e lui si sentiva più incline a una vita di partito, come mi disse anche nell’ultimo anno della sua vita, in cui l’aiutai a scrivere la sua autobiografia, entrando in maggior confidenza con lui. Ma non accettai la sua proposta, perché le mie vere motivazioni d’interesse erano per le altre deleghe e non ambivo alla carriera. Del resto Zanniboni è stato a partire dal 1979, non un La Pira, ma comunque un ottimo sindaco, il migliore che secondo me Forlì abbia avuto nella sua storia repubblicana, a prescindere da “qualche punta di cesarismo”, che non di rado rischia chi deve assumersi delle responsabilità importanti.

Il compenso di assessore era lo stesso che avrei percepito insegnando. La moderazione dei compensi degli amministratori locali negli anni Settanta è uno dei tratti positivi della Prima Repubblica, che troppo spesso viene giudicata in modo spietato e globalmente negativo. Dal 1969 al 1980 (e non solo ci sono state le azioni del terrorismo nero e delle Brigate Rosse), ma è stato anche un decennio di grandi riforme. E vorrei sottolineare un aspetto. Molti politici (non solo di sinistra) che avevano fatto la Resistenza nutrivano una speranza e una voglia di futuro che li spingeva a un atteggiamento di fiducia nei confronti dei giovani che dimostravano interesse e passione per “la casa comune”, a differenza di quanto è successo verso la fine del ‘900 e nei primi decenni di questo secolo. Fra le personalità politiche per cui ho sempre avuto particolare ammirazione c’è stata Tina Anselmi, staffetta partigiana, sindacalista e poi ottimo ministro del lavoro e della sanità, e presidente della commissione parlamentare sulla P2. Che ottima presidente del Consiglio o della Repubblica sarebbe stata! Ma la politica, anche della sinistra, era troppo maschilista, e lei “troppo” libera e coraggiosa!

 

Sottolineo per averli vissuti intensamente tre impegni particolari del servizio reso come assessore comunale.

Nel 1977, dopo la grave frattura -anche a Bologna- del rapporto fra giovani e istituzioni democratiche, proposi alla Giunta e al Consiglio, d’intesa con il compianto collega socialista Flavio Montanari, l’avvio di concorsi per gli studenti negli anniversari del 25 aprile. Un concorso ancora vitale a 45 anni di distanza. Agli studenti di terza media e degli istituti medi superiori venivano richiesti non i temi tradizionali, ma l’utilizzo delle forme espressive preferite: ricerche sulla Resistenza in Romagna, ma anche racconti, interviste, manifesti, dipinti, composizioni musicali, elaborati artistici di vario genere, approfondimenti di singoli articoli della Costituzione in rapporto a particolari vicende di attualità. Parteciparono con una scultura anche giovani del carcere minorile, ai quali avevo fatto visita, provando per la prima volta l’emozione che dà l’ingresso in un carcere. Le opere giudicate più significative e personali ricevevano fra i premi la possibilità di visite guidate a Mauthausen, che come ho potuto constatare da insegnante e da genitore lasciavano un’impronta profonda negli adolescenti e nei giovani. Quel campo di concentramento l’ho visitato con Giovanna molti anni dopo, una delle prime volte che siamo andati a Linz (in Austria), dove Davide si era trasferito per motivi di lavoro nel 1995. Se non ricordo male, Mauthausen è a meno di dieci chilometri da Linz.

 

Nel campo della formazione professionale, in applicazione della legge 285 per l’avviamento straordinario dei giovani al lavoro, ho programmato d’intesa con le scuole e con alcune associazioni economiche corsi di formazione-lavoro per studenti e studentesse degli ultimi anni degli istituti medi superiori, soprattutto nei settori dell’edilizia (raramente gli studenti dell’istituto tecnico per geometri avevano visto un cantiere) e nell’agricoltura, ma anche in ambito strettamente culturale con la collaborazione di Piergiorgio Brigliadori, amico ed ex compagno del liceo e dei primi anni universitari, responsabile del prezioso Fondo Piancastelli, di cui gli studenti del liceo classico erano chiamati a curare schede dei documenti.

 

Un terzo settore d’intervento seguito con molto impegno fu l’Università, di cui mi ero già occupato come assessore provinciale. Il 9 gennaio 1978 presentai al Consiglio comunale una relazione sul tema della ristrutturazione del sistema regionale universitario. L’asse della relazione era il rifiuto della creazione di un’università in Romagna intesa come puro decongestionamento della sovraffollata Università di Bologna assieme all’esclusione dell’ipotesi di progettare in Romagna un Ateneo con tutti i fondamentali corsi di laurea, come chiedeva con una miscela di provincialismo e megalomania qualche personalità politica forlivese. Gli interventi di tutti i gruppi consiliari furono costruttivi e condivisero la sostanza della mia proposta, imperniata su un decentramento qualificato dell’Università di Bologna, senza la pretesa di dar vita a un Ateneo autonomo. Conservo una copia della relazione e del dibattito, riportati fedelmente in un libretto a cura del Comune pubblicato nello stesso anno. E’ questa la linea seguita quando, una decina di anni dopo, si è cominciato a realizzare il progetto dell’Università in Romagna, i cui meriti principali sono del senatore democristiano moroteo Leonardo Melandri e anche del sindaco Giorgio Zanniboni, due uomini politici concreti e lungimiranti, secondo me fra i migliori che abbia prodotto nella sua storia la realtà forlivese e romagnola. Indubbiamente l’assassinio il 16 marzo 1988 del senatore democristiano Roberto Ruffilli da parte delle Brigate Rosse ha contribuito a rafforzare la volontà politica nazionale di rendere omaggio con questa realizzazione al pensatore cattolico democratico per cui il soggetto e il fine della politica era “il cittadino come arbitro”. In piena coerenza con l’art. 49 della Costituzione.

Nonostante la bellezza e la fierezza di svolgere il servizio civile di amministratore della mia città, avvertivo una crescente pesantezza della vita di partito, che fu accentuata dopo che riuscii a far approvare a maggioranza dalla Giunta un documento –poi tradotto in un manifesto che chiesi e ottenni fosse affisso in tutta la città – di condanna (nel decennale dell’intervento) dell’occupazione sovietica della Cecoslovacchia e di aperto sostegno al dissenso democratico nei paesi del cosiddetto “socialismo reale”. La reazione di una parte rilevante dell’apparato federale, di vari militanti e di alcune sezioni fu molto critica, e sul piano nazionale la posizione del partito restava troppo timorosa del rischio di una rottura con Mosca e i paesi satelliti. La divergenza si rivelò irrecuperabile nel congresso federale del marzo 1979 e, nonostante la stima e l’affetto che mi dimostrarono anche vari compagni con posizioni diverse dalla mie che cercarono di dissuadermi dalla decisione che avevo maturato, insistetti nel proposito di dimettermi sia dalla Giunta Comunale sia dagli organi direttivi del partito, a mio avviso troppo affetto da centralismo più burocratico che democratico, da ideologie imbalsamate che non sono sinonimo di idealità e dalla scarsa apertura al dialogo con altre culture. Nel settembre 1979, interrotta l’aspettativa, cominciai a insegnare materie letterarie nella scuola media “G. Mercuriale” dei Romiti. Un anno prima era morto di malaria nello Zaire, dopo sette anni di missione come “fidei donum”, don Mario Ricca, che prima era stato per 17 anni parroco della Cava. L’incontro con la sua storia, che ho studiato per vari anni, è stato per me di grande importanza umana e spirituale. Ne sono nati anche due libri e molti articoli. L’essenza della sua testimonianza di uomo e di sacerdote era nella fede che “Dio è amore”. Come anch’io credo. E quando qualcuno, di destra o di sinistra, lo criticava per le opinioni che esprimeva, lui replicava che la sua politica era solo quella del Padre Nostro.

 

Sperando in una svolta politica nazionale e locale del PCI, accettai di restare consigliere comunale rieletto nel 1980 perché il partito aveva condannato l’invasione sovietica dell’Afghanistan, poi nel 1981 nonostante la stima del nuovo sindaco Giorgio Zanniboni mi dimisi dall’assemblea elettiva e anche dal partito con cui non mi sentivo da tempo in consonanza. Del resto non avevo mai concepito la militanza come una carriera, come un “cursus honorum” a tempo indeterminato. La passione per il volontariato civile mi indusse comunque ad essere fra i fondatori nel 1985 della “Lista Verde eco-pacifista e solidaristica”, più corrispondente ai miei ideali anche perché non fondamentalista come altre liste verdi. Con questa lista raccogliemmo i circa 2000 voti necessari all’elezione della capolista Auretta Pini, giovane laureanda in architettura, motivata e preparata. L’atto finale della presentazione ai concittadini era stato il manifesto di mia stesura che proponeva l’obiettivo centrale della lista: “Difendere la vita e la salute dell’uomo e dell’ambiente”. Ma i Verdi diedero a mio avviso il meglio di sé soprattutto fino al referendum contro il nucleare e in seguito, a parte qualche esponente di rilievo e singole iniziative, persero la loro originale carica propulsiva, abbandonando il sentiero tracciato da grandi personalità come Alex Langer, che ebbi l’occasione di conoscere meglio anche accompagnandolo a Sadurano per un incontro con don Dario Ciani. Che stile lontano da quello dei politicanti! Due ore di domande e di ascolto da parte di Alex, senza chiedere voti per le imminenti elezioni europee. Fu comunque eletto.

 

Il 1989 è stato l’anno di un particolare impegno contro le armi di sterminio di massa. Ho dato il mio modesto contributo sia con l’obiezione fiscale per questo tipo di armi, sia con il lancio di una petizione locale che raccolse circa duemila firme. Il 27 aprile 1989 fu veramente una bella giornata di valore simbolico! Quando l’ ufficiale esattoriale entrò in casa mia (allora in Via Cecere 42) con la frase di rito. “Dichiariamo aperta l’asta. Valore valutato 196.000 lire. Apriamo alla metà”. Piero Ragazzini, allora segretario della FIM Cisl, disse d’un fiato, come raccontò Nicoletta Rossi nel quotidiano Il Resto del Carlino del giorno dopo, 98.460. E in pochi minuti finirono le formalità di rito dell’asta, con sacrificio da parte mia dei nove volumi della “Storia d’Italia” dell’Einaudi. Il provvedimento era scattato perché nella dichiarazione dei redditi del 1985 avevo scelto l’obiezione fiscale per la parte delle spese militari (il 2% sul 6% che il bilancio dello Stato assegnava alla difesa). Dichiarai –come ricorda la pagina conservata del Carlino- che le 50.000 lire non pagate intendevano essere il rifiuto “non di tutte le spese militari, ma delle armi d’offesa” e di sterminio. L’ufficiale esattoriale, che conoscevo da molti anni per il comune amore del calcio, era venuto a casa mia un mese prima, e dovendo necessariamente pignorare qualcosa, scelse la celebre enciclopedia di Einaudi. Il 27 aprile si autotassarono per me i rappresentanti di vari circoli e associazioni, compresa la Caritas alla quale ho devoluto le 50.000 lire detratte, consegnando poi ai partecipanti alla colletta una trentina di libri di storia, ecologia e politica della mia biblioteca personale. Una calda giornata di amicizia e di solidarietà che rivedo anche in una foto scattata da Montanari e pubblicata dal quotidiano con Giovanna accanto a me.

 

Con il passare degli anni mi sono reso conto in modo definitivo che non ero fatto per la “politica politicante”, che non amavo e per la quale (anche se ero attratto da un’idea alta della politica) mi mancavano alcune caratteristiche che non desideravo imparare. Mi erano rimaste impresse le parole di Emmanuel Mounier, il pensatore più organico dell’esistenzialismo cristiano e del personalismo comunitario, che avevo cominciato a leggere con molto interesse già nel 1960, durante il secondo soggiorno giovanile in Francia: “Essere in politica non da politicanti e mestieranti, ma portandovi la nostalgia dei veri valori e dei più intimi sentimenti umani”. E comunque un’idea alta del civismo e della politica, intesa come dimensione costitutiva della persona e del cittadino, mi indusse nel 1994 a promuovere con altri concittadini di diversa formazione il movimento di opinione “25 ottobre” (dal giorno della sua fondazione), perché nelle elezioni amministrative dell’anno dopo si tenessero maggiormente in conto le istanze della società civile. L’inno che introduceva i nostri incontri pubblici era la bella canzone di Giorgio Gaber. “Libertà è partecipazione”. “Libertà non è star sopra un albero…” Una trentina di concittadini, divisi in gruppi di lavoro, elaborò un documento di proposte consegnato sia al candidato sindaco Franco Rusticali, che poi vinse le elezioni e fu sindaco per dieci anni, sia a Romano Prodi, leader dell’Ulivo, in occasione di una sua venuta a Forlì. L’Ulivo e poi anche il PD mi avevano attratto, per una dichiarazione di impegno a fondere le culture più progressiste (cattolicesimo democratico, socialismo democratico, ambientalismo non fondamentalista e liberal-democrazia), ma nei fatti questa scommessa non ha avuto buon esito, dando luogo a un assemblaggio di spezzoni dei gruppi dirigenti del vecchio PCI e della DC. In realtà è ancora da realizzare il sogno di un soggetto politico che si impegni in modo organico per una politica di pari opportunità di tutti i cittadini fin dalla nascita, a partire dalla sanità e dall’istruzione.

 

Non posso parlare della mia vita ignorando un fatto di enorme rilievo. Il 1996 è stato l’anno del dolore più grande vissuto dalla nostra famiglia, la morte a 29 anni del figlio Ercole, eccellente violinista e giovane di grandi qualità umane e intellettuali, oltre che artistiche. Fin da ragazzo nell’orchestra giovanile italiana, poi vincitore di concorsi e da anni già professore di violino nell’Istituto Arcangelo Corelli di Cesena. Ma anche se non avesse avuto tante doti, il dolore sarebbe stato comunque molto profondo, di fronte a un evento così innaturale e crudele come quello che un figlio ti preceda nell’ultimo viaggio senza ritorno. Abbiamo cercato di non arroccarci in questa sofferenza, evitando di rinchiuderci in un’esistenza puramente intimistica e privata. Sono state di grande aiuto a Giovanna e a me la speranza cristiana che la morte possa essere sconfitta e di poter un giorno reincontrare Ercole in un’altra dimensione, l’amore degli altri figli e dei nipoti che stavano nascendo e la memoria del grande dono di aver potuto vivere con lui e gli altri quattro figli molti anni belli della nostra esistenza. Mi è rimasto impresso un suo breve scritto trovato postumo in un suo foglio: “Diffondere la pace, la serenità, la felicità, LA VERA FELICITA’, che è felicità nella semplicità”. Un bel programma di vita. Ma il dolore della perdita resta indelebile. Abbiamo cercato di non esserne prigionieri, ma di trasformarlo in energia positiva per gli altri.

 

Abbiamo continuato i tanti corsi d’italiano e cultura civica per giovani immigrati già avviati nella seconda metà degli anni Ottanta nel volontariato aclista (anche in una casa colonica con Paola Benelli) e sviluppati poi nel CFP regionale di Via Dandolo, ben diretto da Rosa Benati e con piena condivisione dell’assessore Montanari. Giovanna mi ha dato una mano come volontaria in alcuni corsi. Ho insegnato in corsi analoghi anche a Ravenna e in altre realtà. L’incontro con varie centinaia di giovani (uomini e donne), forse un migliaio, originari –come un giorno ho verificato- di una settantina di paesi diversi, è stato uno straordinario viaggio nei cuori, nella mentalità, nelle tradizioni e nelle religioni di persone che ho potuto incontrare “senza muovermi da casa”. Ha ragione il compianto Alex Langer: “Conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire: più abbiamo a che fare gli uni con gli altri meglio ci intenderemo”. E, aggiungo, meno spazio ci sarà per il multiforme razzismo, che in Italia non si manifesta solo negli stadi, e già questo è un fenomeno di cui vergognarsi. E’ stata finora errata, anche da parte del centro-sinistra quando ha avuto responsabilità di governo, la mancata approvazione dello “ius soli” o quanto meno dello “ius culturae”, uno dei diritti civili fondamentali per realizzare una convivenza ordinata e feconda. Sarebbe la premessa necessaria per favorire un’accoglienza che non sia soltanto formale e una vera integrazione che non pretenda di essere omologazione forzata di chi non nasce in Italia, anche se deve rispettarne le leggi e i principi della nostra Costituzione. E’ inoltre inaudito che la destra, dopo aver approvato la fallimentare legge Bossi – Fini, i presunti decreti sicurezza di Salvini, e dopo aver sostenuto tesi come il blocco navale delle coste nordafricane e approvato il decreto Cutro, che riduce fortemente la protezione speciale, continui di fatto a contrastare o ridurre al minimo i flussi di immigrazione regolare che sarebbero indispensabili anche alla nostra economia, se intendiamo contenere un costante calo demografico gravido di conseguenze negative. Ci si spinge addirittura con le dichiarazioni di esponenti di primo piano a paventare il disegno di una sorta di “sostituzione etnica” che verrebbe perseguita a danno della popolazione italiana ed europea per favorire l’avvento degli africani, oltretutto impropriamente considerati di maggioranza musulmana. L’on, Meloni preferisce –come ha auto occasione di dichiarare – i venezuelani perché cristiani e per lo più bianchi. Ma dimentica che noi siamo anzitutto un ponte verso l’Africa e il Vicino e Medio Oriente, in un Mediterraneo che la Prima Repubblica ha quasi sempre cercato di mantenere mare di pace. E che oggi vive crescenti tensioni, e la morte di molte migliaia di disperati in fuga dalla guerra e dalla miseria.

D’accordo che sarebbe giusto ampliare l’occupazione femminile, che richiede comunque varie condizioni, fra cui una politica di espansione dei servizi come gli asili nido e altri provvedimenti, ma perché contrapporla a migrazioni straniere? Le due politiche dovrebbero essere perseguite contemporaneamente. Senza dimenticare mai che, come scriveva Einstein, c’è una sola razza: la specie umana.

 

Il tema dei diritti non va mai dissociato da quello dei doveri. E quanto ai diritti, mentre molti sono sacrosanti, altri di cui oggi si parla e discute molto non sono per me tali. Faccio qualche esempio. Ho avuto la benedizione di cinque figli, ma non credo che possa essere annoverato fra i diritti quello di avere figli a tutti i costi, anche affittando l’utero di una donna che forse un giorno rimpiangerà la sua “gestazione per altri”. Mi dispiace molto che l’on. Elly Schlein, neo -segretaria del PD che per alcuni aspetti mi convince, si sia dichiarata non contraria alla “gestazione per altri”. Se facesse adottare questa linea al partito, dubito molto che avrebbe il mio voto. In ogni caso si riconosca almeno il diritto all’obiezione di coscienza ai rappresentanti del PD nelle assemblee elettive.

Chi vuole davvero vivere l’esperienza della genitorialità e far vivere a minori il dono della cura e dell’affetto speciale da parte di due adulti, può chiedere l’affidamento e l’adozione di qualcuno dei tanti bambini e ragazzi (italiani o di altri paesi) costretti a vivere in istituti o comunque lontani da una dimensione familiare. Ma si pensa troppo poco ai diritti dei bambini, che mi sembrano ignorati in particolare quando si avvalgono della maternità surrogata coppie di omosessuali maschili, nessuno dei quali vive la straordinaria esperienza della maternità. Non a caso anche gran parte delle femministe mi sembrano contrarie.

 

 

C’è un altro tema di cui ci si occupa invece troppo poco. La ripresa negli ultimi quindici anni di una crescente emigrazione italiana di massa, frenata negli ultimi tempi solo dal Covid e dalle sue conseguenze. Se, oltre ai dati dell’AIRE, consideriamo anche le partenze non formalizzate da dichiarazioni e immediate residenze ufficiali all’estero, l’emigrazione di fatto è vicina da una dozzina d’anni a 150.000 persone all’anno, per oltre la metà di diplomati e laureati, la cui formazione è costata molto alle famiglie e allo Stato, ma costretti poi a cercare lavoro in Germania, in altri paesi europei e in altri continenti, quando potrebbero essere una preziosa risorsa per il nostro paese che perde i contatti con gran parte di loro. In gran numero difficilmente rientreranno in Italia, senza un profondo cambiamento dell’economia e della società. Un’emergenza troppo sottovalutata di fatto dalle forze politiche e dalle istituzioni, al di là di qualche discorso di circostanza.

 

 

Per oltre trent’anni, a partire dal 1988, il mio impegno civile e culturale principale si è espresso soprattutto nelle Acli, nate in primo luogo come movimento educativo che dovrebbe essere impegnato per il pieno sviluppo della persona umana secondo il messaggio evangelico e per promuovere una cittadinanza consapevole, attiva e solidale nello spirito della dottrina sociale della Chiesa. Meglio ancora, delle Chiese cristiane e di donne e uomini “di buona volontà” che hanno fede nell’essere umano. Ho fondato quattro (o meglio cinque) circoli aclisti: il primo nel 1988 intitolato a Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador assassinato, mentre celebrava la messa; da un sicario della dittatura; poi il Lamberto Valli di Ravaldino nel 1999, quando è divenuto parroco don Sergio Sala e lasciando la presidenza dopo qualche anno a soci più giovani; il terzo circolo a Meldola “Il Ponte (dopo aver fondato un circolo dello stesso nome in Brasile) e da ultimo la rifondazione del Romero con l’incoraggiamento di don Erio, nel 2010 parroco di San Giovanni Evangelista. Un grande amico e un sacerdote straordinario in cui convivono doti che è difficile incontrare nella stessa persona: spiritualità veramente evangelica, grande cultura, attitudine al dialogo a tutto campo e uno stile umile e familiare. Le migrazioni e il dialogo interculturale, ecumenico e interreligioso sono stati temi fondamentali nella vita di questi circoli, e in particolare del Romero, l’unico circolo aclista che in Italia ha avuto per un decennio la partecipazione attiva, continua e preziosa di protestanti avventisti (Rolando Rizzo, pastore e scrittore di grande talento) e di ortodossi romeni (il bravo parroco Florin Hanis e la moglie Bianca), accanto a quella di cattolici e di soci diversamente credenti, ma accomunati dalla fede nell’uomo e nelle sue risorse. L’amicizia fra persone di storie anche diverse è stato il tratto comune di tutte queste esperienze che hanno coltivato la collaborazione con altre associazioni -quasi coeve ma tuttora operanti – di grande valore socio-culturale come Forlì, città aperta (fondata da Massimo Tesei e Liana Gavelli) e Rete Magica, amici di Alzheimer e Parkinson (presieduta per vari anni da Eugenia Danti). Fra le circa centocinquanta iniziative del decennio di vita del circolo, e concentrate in particolare nel periodo 2010 -2015, ricordo per fare qualche esempio, gli incontri con la comunità romena forlivese e quella salvadoregna di Milano, il dialogo ebraico-cristiano con Maura De Bernardt e don Sergio Sala, quelli con donne musulmane, gli incontri sul tema della ludopatia con l’Associazione Giocatori Anonimi, le serate di ricordo di forlivesi per noi in vario modo speciali, come la scultrice Carmen Silvestroni, Piergiorgio Brigliadori con il fratello Andrea, Renzo Gazzoni e vari altri, gli incontri con don Dario Ciani, la presentazione di vari romanzi a cominciare da quelli di Rolando Rizzo, la presentazione da parte di don Erio –poche settimane dopo che era stato nominato vescovo -dell’enciclica di papa Francesco Laudato si’ (sulla cura della Casa Comune); i concerti del flautista Alessandro Spazzoli e di mio figlio Davide. Tutto sempre all’insegna delle gratuità da parte degli intervenuti. E le stimolanti conversazioni di don Erio sul Concilio nella canonica, divenuta anche luogo di incontri conviviali fra noi soci del circolo e con gli ospiti. E anche la serata nella chiesa di S. Giovanni Evangelista dedicata alla Costituzione, di don Erio in dialogo con il prof. Maurizio Viroli, oltre a quelle per la libertà del Venezuela con la presenza del compianto Paolo Montanari e della figlia Lucia, cantautrice di belle canzoni di ispirazione civile e religiosa.

 

Ora sono un semplice socio del Valli, perché c’è un tempo per ogni ruolo. Applicando lo stesso principio di alternanza nelle responsabilità, ho lasciato a Tina Santoro, un’insegnante preparata che ha la metà dei miei anni, l’incarico di rappresentare le Acli regionali nella Consulta emiliano-romagnoli nel mondo, di cui sono stato membro per vent’anni, scrivendo libri e progettando e gestendo dal 2008 al 2010 corsi di lingua e cultura italiana per numerosi discendenti di emigrati italiani in Brasile (nello Stato di San Paolo) e in Uruguay (a Montevideo). Oltre a un’iniziativa con l’associazione italiana di Mar del Plata, in Argentina. In questi corsi ho cercato anche di far conoscere aspetti rilevanti della cultura regionale di rilievo tutt’altro che locale: i film di Fellini “I vitelloni” e “Amarcord”, “La neve nel bicchiere” film di Florestano Vancini ispirato da un romanzo di Nerino Rossi, che rappresenta l’Emilia da cui erano emigrati bisnonni e nonni; alcune canzoni di cantautori della nostra regione, come Francesco Guccini e l’amico Claudio Chieffo. Ma mi piacciono moltissimo anche Lucio Dalla e Pierangelo Bertoli. Giovanna ha tenuto un corso di mosaico e uno di cucina emiliano-romagnola, corsi molto apprezzati e frequentati. Oltre all’aula prestata dall’Università di Salto, i corsi avevano non di rado uno sviluppo informale nel bilocale senza lavatrice che avevamo affittato per spendere poco denaro della Regione e per sviluppare un contatto amichevole con gli allievi, anche oltre le ore ufficiali di lezione. Con vari allievi dei corsi, in cui abbiamo coinvolto anche alcune scuole di Salto, siamo rimasti in contatto. E ne sono nati due recital realizzati nel 2008 e nel 2009 nel teatro Dragoni di Meldola, con la partecipazione e le testimonianze di emigrati italiani e immigrati stranieri,, serate con il titolo “Fare l’America e fare l’Italia”. Ne abbiamo ricordo nei cd, come della serata finale dei corsi in Brasile.

 

Nel marzo 2011, durante il soggiorno di un mese con Giovanna in un monolocale affittato nell’isola capoverdiana di Boa Vista, abbiamo potuto conoscere padre Paulo Borges Vaz, un sacerdote di profonda cultura e spiritualità veramente evangelica, che si è formato attraverso esperienze di studio in Francia, in Italia e in Spagna, ma ha poi voluto esprimere la sua vocazione pastorale nella terra natale, luogo d’incontro delle culture dell’Africa, dell’Europa e dell’America Latina. Al ritorno in Italia abbiamo animato, in un fecondo interscambio umano e culturale, un’azione di solidarietà alle sue intense attività educative e l’abbiamo invitato a Forlì, dove don Erio e molti forlivesi hanno potuto apprezzarne le qualità e i progetti. La pandemia è esplosa quando era parroco di Sao Vicente, un’altra isola dell’arcipelago, e di fronte al crollo del turismo e dell’occupazione degli abitanti, in mancanza della cooperazione internazionale e di sussidi statali, l’intervento di sostegno di un gruppo di forlivesi e di cittadini di altre realtà ha cercato e cerca –anche ora che p. Paulo guida la parrocchia di “Nostra Signora della Luce” dell’isola di Santiago – di lenire con le offerte che riusciamo a raccogliere le sofferenze di tante famiglie povere a cui difettano il cibo, il materiale scolastico e i trasporti scolastici per i figli che frequentano gli istituti medi superiori, oltre alle medicine. Nel tentativo di offrire più continuità al sostegno e anche motivi di speranza in un domani migliore, abbiamo fondato un’organizzazione di volontariato riconosciuta dalla Regione, l’associazione “Amici di padre Paulo e di Cabo Verde – OdV”, che è oggi per me e altri amici -per lo più anziani- la principale forma di impegno. Una goccia nell’Oceano dei bisogni, direbbero Annalena e Madre Teresa di Calcutta, ma pur sempre una goccia. E’ intollerabile l’abbandono dei poveri del Sud del mondo, come la solitudine in cui è stata lasciata l’Africa, oggi oltretutto a rischio di una forte penetrazione russa e cinese, già avviate da anni. Il colonialismo europeo ha dato cattiva testimonianza dei valori della nostra civiltà. Anzi li ha calpestati. Per fare solo un esempio, dopo cinque secoli la dominazione coloniale portoghese, finita nel 1975 a Capoverde come nelle altre colonie del Portogallo, aveva lasciato il 97% di analfabetismo!

 

Un gruppo di noi ha molto a cuore anche il Salvador e informati da Morena Molina (una cara amica salvadoregna), di una bella iniziativa educativa nella montagna del Salvador, cerchiamo anche di dare una mano alla “Casa del cipote”, una scuola dell’infanzia ben condotta da un’associazione milanese di volontariato, in un paese in cui nonostante gli sforzi recenti dei governanti si contendono il primato la miseria e la violenza di bande armate. La lezione di Oscar Romero non è ancora riuscita a imporsi nella società, nella politica e nelle istituzioni. In ogni caso, pur consapevoli di dare troppo poco rispetto ai bisogni reali, viviamo l’esperienza di ricevere molto sul piano umano, culturale e spirituale sia da Capoverde sia dal Salvador.

 

Fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, dopo il sovraccarico degli impegni politico-amministrativi, ho avviato una più varia e intensa attività pubblicistica, che prima si era espressa soprattutto in molti articoli pubblicati sul Forlivese, periodico federale del PCI, aperto al dibattito pubblico grazie al direttore Adler Raffaelli. Oggi purtroppo mancano periodici che stimolino lo spirito civico e la partecipazione dei cittadini, affidata quasi soltanto a lettere ai quotidiani. L’arrivo dei social ha fatto anche molti danni a feconde relazioni fra le persone.

Alla fine degli anni ’70 ho cominciato a scrivere poesie e nel primo lustro degli anni Ottanta non sono mancati i riconoscimenti pubblici sia per le mie poesie sia per “Acquario”, una commedia con protagonisti adolescenti. E nel 1984 mi è stato conferito l’Oscar Romagna per “meriti artistico-culturali”.

 

Negli ultimi quarant’anni ho scritto e curato oltre una ventina di libri legati a esperienze di vita e ad argomenti che mi hanno attratto maggiormente.

Fra gli altri, storie di missionari forlivesi e romagnoli (Sentiero fra le capanne e Don Mario, edito dall’Emi, sulla storia di don Mario Ricca, Aurora sul lago Tanganika sulla vita di p. Giuseppe Arrigoni, religioso saveriano, e Mwira vani (Amico mio) su p. Gino Foschi, anche lui saveriano), Padre Adriano da Civitella, cappuccino; Ci siamo anche noi e C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico, antologie per le scuole e per la comunità sugli elaborati di vario genere presentati e premiati dal 1978 al 1989 nei concorsi per il 25 aprile; Uno sguardo dal ponte, antologia di opere di studenti della scuola media “G. Mercuriale” dei Romiti, dove ho insegnato per dieci anni; due opere (Nati per la formazione e l’integrazione e Mettere in moto la formazione) sulla storia dell’Enaip forlivese e cesenate, l’ente di formazione professionale delle Acli, che grazie all’impulso di Roberto Ragazzini, Giovanni Vasumini e di altri qualificati operatori forlivesi e cesenati ha svolto un ruolo molto efficace nella formazione di centinaia di adolescenti; vari libri sui temi delle migrazioni (Se la Terra è rotonda, Qua fa molto freddo edito dall’EMI, un libro sulla Consulta forlivese dei cittadini stranieri, di cui sono stato uno dei fondatori; Partir bisogna, Dall’Italia noi siamo partiti (tradotto anche in portoghese), Monte Vedo Io (con traduzione anche in spagnolo), L’emigrazione italiana non è una storia minore, edito dalla Regione con lo scopo di aiutare scuole e comunità locali a non perdere memoria di un tratto distintivo della nostra identità nazionale, che abbiamo constatato essere scarsamente rappresentato nei libri scolastici.

 

Tralasciando altre pubblicazioni, ho collaborato con Giorgio Zanniboni nell’impostazione e nella stesura del libro La mia vita (la sua autobiografia) e ho curato il libro La mia Parola è Giustizia e Carità, contenente profonde omelie e lucide conversazioni di don Erio sul Concilio. Per finire cito due libri autobiografici editi, come vari altri, da “Il Ponte Vecchio”di Cesena (Il disincanto e la speranza del 1999 con la prefazione di Maurizio Viroli e Todo Cambia, ma nel nostro cammino ci sono valori e affetti che restano, che contiene cronache di cittadinanza attiva, racconti, saggi e poesie, scritti dal 1960 al 2013, con la prefazione di don Erio Castellucci, come il libro dedicato a p. Gino Foschi). Nella prima prefazione don Erio sottolinea il grande rilievo che nel mio impegno civile, associativo e pubblicistico hanno avuto i temi legati alla Costituzione e al Concilio, nella seconda il sacerdote (dal 2015 arcivescovo di Modena e Nonantola, e attualmente anche di Carpi) fa presente che “in un tempo di passioni tristi come l’attuale abbiamo bisogno di passioni gioiose e dell’esempio di qualcuno che rilanci i grandi ideali per i quali vale la pena di spendere la vita”. Le vere idealità al posto di ideologie consunte e di propagande faziose che, come scrive Massimo Recalcati, rischiano di far diventare la politica una “passione triste”.

Ho scritto anche alcuni testi poi tradotti in canzoni, per lo più da nostro figlio Antonio: fra gli altri, Euroshima no, Ballata del progresso, Fare l’America, Ragazzo albanese e Bella (dedicata a mia moglie).

 

Posso sbagliare, perché le mie opinioni sono attualmente fondate soprattutto su quanto leggo nella stampa locale, ma mi pare di non cogliere nell’operato della Giunta forlivese di centro-destra (sempre meno civica) e per la verità neanche nelle minoranze (se non in alcuni consiglieri) una visione della città di Forlì capace di riscaldare i cuori e di suscitare fiducia in un futuro migliore. Come prima considerazione suscita in me molta perplessità, da ex amministratore, l’avanzo di amministrazione di 15 milioni di euro (quasi 30 miliardi di vecchie lire) lasciato nel corrente anno dall’Amministrazione Comunale. Che senso ha una tale operazione?

Non vedo inoltre il necessario impegno per evitare che l’Università rimanga un corpo piuttosto separato dalla nostra comunità. Non riesco peraltro a cogliere un disegno coerente e credibile di politica culturale: che significato ha, per esempio, l’idea di trasferire la storica collezione Verzocchi sul lavoro (nata in ben altro clima culturale) da Palazzo Romagnoli a Palazzo Albertini, che potrebbe essere utilizzato per mostre importanti di pochi mesi e per lasciare uno spazio alla creatività dei giovani, e in particolare di quelli del Liceo Artistico e Musicale? La “rivolta” di tante associazioni e di molti intellettuali dovrebbe far riflettere l’assessore e la Giunta. Una maggior vitalità di piazza Saffi, che ci racconta mille anni di storia della nostra città, potrebbe essere agevolata anche da scelte come questa. Oltre che da un maggior coinvolgimento della piazza dalla stagione musicale estiva. Attendo con ansia il giorno dello spostamento della pensilina che venendo da Via Torri (moto frequentata quando nei primi anni ’70 ero assessore in Provincia) ostruisce e imbruttisce la visione della facciata del gioiello più prezioso di Forlì: la Basilica di San Mercuriale.

Vedo una sola innovazione significativa, l’acquisto dell’ampia area dell’ex zuccherificio Eridania, con l’obiettivo dichiarato –e che condivido – di progettare un grande parco pubblico con il concorso della Fondazione della Cassa dei Risparmi. Un nuovo polmone verde può essere benefico per la salute dell’ambiente e dei cittadini, ma va studiato bene. Senza escludere un’ipotesi nata da una recente conversazione con Gabriele Zelli: perché non creare nel complesso industriale uno spazio per il museo della civiltà contadina, civiltà che è stata tanta parte della nostra storia, mentre il museo soffre da tempo una collocazione molto precaria? Colgo l’occasione per ringraziare da concittadino Gabriele Zelli per il suo costante impegno di far conoscere meglio la città e la sua storia ai forlivesi e a tutte le persone interessate. Si tratta di un’autentica opera di volontariato civile, che in questo periodo non attraversa certamente il suo periodo migliore. E anzi è, per vari aspetti, in crisi, come e più di altre forme di volontariato.

 

Dopo le nozze d’oro, per cui Giovanna e io abbiamo avuto la felice opportunità dell’invito a una Messa del mattino celebrata a Casa Santa Marta con un’ indimenticabile omelia da papa Francesco (“l’amore si vede dai fatti”) e poi la possibilità del dialogo di alcuni minuti dopo la Messa con il Papa, il cui sguardo e le cui parole sono state un vero abbraccio non solo per noi ma per una cinquantina di presenti in fila davanti a lui, questo è l’anno –se Dio vorrà- del sessantesimo anniversario delle nostre nozze, a metà del prossimo dicembre. Comunque sia, Gracias a la vida que me a dado tanto, per usare il primo verso della straordinaria canzone di Violeta Parra. Ma, anche se si è avuto tanto, non si può essere davvero felici in un mondo dominato dall’avidità di ricchezze e di potere della “lupa” dantesca, che causa povertà di miliardi di persone, ingiustizie di ogni genere e guerre tanto numerose quanto efferate. Una politica di riarmo generalizzato non può essere di buon auspicio, e mi preoccupa l’impegno chiesto dalla Nato che ogni paese dell’alleanza debba impiegare il 2% del PIL per le spese militari, facendo mancare (nel caso di questa eventuale decisione) risorse necessarie alla sanità, all’istruzione, alla ricerca e alla difesa del territorio Non è certamente lo spirito con cui Giovanni XXIII guardava il mondo e che aveva auspicato e raccomandato nel 1963 con l’enciclica “Pacem in terris”, un tesoro di umanità e di spiritualità. Papa Francesco richiama da vari anni lo spirito di questa straordinaria enciclica di mezzo secolo fa, levando il grido che stiamo vivendo una “terza guerra mondiale a pezzi”, ma finora prevalgono gli interessi delle multinazionali e del commercio delle armi, oltre che di imperialismi contrapposti. La ricerca di una “pace giusta” ha assoluto bisogno in Ucraina e altrove di un salto di qualità della politica anche da parte dell’Unione Europea, finora purtroppo un vaso di terracotta fra vasi di ferro, per dirla con il Manzoni, con l’ulteriore rischio di crescenti nazionalismi e sovranismi. E di un’eccessiva dipendenza dagli USA. Constato –e mi dispiace- che la Presidente del Consiglio sia più atlantista che europeista. La recente volontà espressa da papa Francesco (al ritorno dal viaggio in Ungheria) di impegnarsi con altri nella promozione di una missione di pace per l’Ucraina è oggi l’unico concreto segno di speranza in un contesto che si fa sempre più pericoloso per il mondo intero. Pur consapevoli dell’estrema difficoltà di questa missione che richiede la disponibilità di aggressori e aggrediti non si deve disperare che – con il concorso di altri soggetti autorevoli – possa avere lo stesso successo che ebbe sessant’anni fa, in occasione della crisi di Cuba, la saggia mediazione fra USA e URSS di papa Giovanni XXIII, il grande papa che ebbe la coraggiosa e profetica intuizione della Convocazione del Concilio. Ma la guerra in Ucraina rischia di protrarsi a lungo, provocando costi umani e di vario genere altissimi, oltre a quelli già causati dall’aggressione russa, che non credo condivisa da tutto il popolo di Tolstoj.

 

Pierantonio Zavatti

 

  1. La festa in famiglia vissuta in casa l’11 maggio 2023 con due canzoni speciali, con la partecipazione dei quattro figli e delle loro famiglie, con la carissima nipote Sara in rappresentanza degli altri nipoti geograficamente lontani soprattutto per motivi di lavoro, e tanti messaggi e telefonate di vari familiari e di amici, è stata una delle giornate più belle della mia vita. Che cosa può desiderare di più un ottantenne?

 

Gracias a la vida que me a dado tanto.